Una donna su un treno

La fine del mondo non ha per niente la forma prevista. Dal vetro appannato, Clotilde osserva la neve ammantare aprile; il treno attraversa foreste morte e prati avvelenati da torrenti fangosi. Guarda lo sfondo sfaldarsi lentamente; l’epoca in cui si trova si chiama Troppo tardi, lo sanno tutti, quindi per forza di cose si chiede come facciano tutte quelle bocche a pronunciare ancora seriamente la parola Futuro. Il vento urta la carrozza trascinando acqua sporca; i fiocchi sono grigi come le ceneri estive che cospargono le piscine mentre le persone ci nuotano dentro, circondate da incendi. Così, come tutti, Clotilde attraversa la prova: è difficile ammettere che vive e vivrà solo con l’ottica di aver superato una soglia, nell’incavo di uno strappo, e che la seconda parte della sua vita coincide col periodo della fine del mondo.

Clotilde ha sempre saputo che prima o poi avrebbe sentito la terra aprirsi sotto di sé, e che le sue suole sarebbero state inghiottite nel terremoto finale dell’Apocalisse. Sicuramente è così perché lei è una strega, o perché è così narcisista che non può concepirsi al di fuori di sé stessa. Ma il suo immaginario era formattato a suon di cultura, lo sguardo di San Giovanni impregnava le sue pupille, spingendo il suo spirito a far attenzione ai segni premonitori dell’Apocalisse in un mare di sangue e non nello scioglimento dei ghiacci. Lo sguardo di San Giovanni precede la collassologia. E poi si aspettava una rottura brutale, con qualcuno che impersonava il ruolo dell’angelo. Invece ora non ci sono né draghi né cavalieri. Le trombe del giudizio universale non possono suonare da quanto tutti hanno il fiato corto. Al posto della Bestia c’è il marchio dell’agonia, e i flagelli saranno numerosi, i numeri indicatori del nulla: il crollo globale si svolge senza brio e non ha una messa in scena adeguata.

La luce è di gesso, uno stormo di stornelli si schianta contro una turbina eolica, il capotreno ricorda che il bar offre bevande calde. Ovviamente per Clotilde è triste il fatto che sia la fine del mondo. Eppure lo accetta senza alcun tipo di resistenza, proprio lei, il cui midollo si infiamma alla prima ingiustizia. Si è soffermata a lungo sulla questione e nessuna argomentazione a favore della sopravvivenza della specie umana le sembra ammissibile, proprio nessuna. Non ha avuto figli per non doversene immischiare. Essere responsabile di una vita che soffoca nelle ceneri le sembra ancora peggio di partorire su una tomba. Il giorno non brillerà più, sarà sempre notte: è questa la novità.

Il sedile è confortevole ma il tragitto è lungo, molto lungo, interminabile. Clotilde l’ha fatto apposta per poter riflettere. Per essere capace di vederci chiaro e prendere finalmente una decisione. Il posto in cui la sta portando il treno non conta, quello che succede nella sua testa è molto più significativo delle stazioni che la accoglieranno tra qualche ora; una pausa al confine con la Germania e un cambio, prima di soggiornare due notti a Heidelberg. Ha scelto quella città per il suo valore simbolico. Heidelberg, così oltraggiosamente romantica; il posto in cui – così le avevano detto – i giovani colpiti da I dolori del giovane Werther andavano a macchiare di rosso il prato del fossato, suicidandosi.

Più tardi, molto più tardi, facendo ricerche, Clotilde ha scoperto che quella storia dei ragazzi coi cuori spezzati che si buttano dalle alte nicchie del castello di Heidelberg con il libro di Goethe in tasca era un’invenzione, era solo una storiella diventata leggenda. Nessuna schiera di giovani era venuta a morire per amore a Heidelberg. Il tipo che le aveva raccontato queste cose l’aveva fatto per impressionarla durante la sua ultima gita scolastica. Non c’è niente di più amareggiante di una leggenda che ci sta a cuore al punto di raccontarla non appena si presenta l’occasione che si rivela improvvisamente la bugia di un furbacchione.
Nessuna schiera di giovani era venuta a morire a Heidelberg, ma Clotilde si è tanto immaginata quel posto, quel luogo si è così integrato nella sua geografia intima, che non ha potuto rinunciare a farne lo sfondo ideale, la destinazione finale per raccogliere i rimasugli dei suoi sentimenti. L’altra opzione era la Grotta di Venere del castello di Lindderhof. Però i castelli di Luigi II di Baviera sono infestati di turisti e la visita della Grotta, atrocemente cronometrata, si effettua in gruppo. Allora sì, è toccato ad Heidelberg.

Da un punto di vista logistico questo lungo periplo non ha senso: generalmente bastano meno di quattro ore per raggiungere la città. Ma qui siamo all’interno di un protocollo ideato da Clotilde per risolvere un enigma che le torce il cuore e i neuroni da molto tempo. Rinchiudersi in un treno fino a toccare il nord ovest della Germania per cambiare binario, scendere di nuovo per due notti vicino a una torre mozzata. Errare lungo rovine di arenaria rossa; dormire, finalmente, dormire un po'. Poi rientrare a casa in qualche ora, lucida e calma. Forse perfino sfiorata dalla grazia di un qualche cambiamento. Qualcosa in lei deve cambiare, il suo sguardo deve spostarsi; la bolla che le turbina in testa deve esplodere e smettere di aggrovigliarsi su sé stessa.

Durante questo processo niente potrà distrarla o parassitare la sua ricerca interiore, perfino quando camminerà per le vie di Heidelberg. Non parla tedesco. Il suo inglese esecrabile esclude ogni tentazione di comunicazione; non parlerà, resterà concentrata sul suo oggetto di studio. È per una questione delicata, che da diciassette mesi vortica nella sua testa, strappando uno a uno i suoi neurotrasmettitori. Diciassette mesi, ma quanti cassetti, quanti abissi memoriali. Quanti ingressi possibili tramite i quali cogliere l’enigma per decifrarlo: è per questo che Clotilde, seduta sul treno, segue il protocollo. Identificherà il problema per poi agire in funzione.

Deve ricostruire un puzzle fatto di fossili e di desiderio intriso di un ritorno eterno, una sorta di mosaico che disegna questa storia la cui natura ed essenza le scappa fin dalle sue origini. Una storia impossibile, la cui brillantezza – pare – non si oscura mai. È una strana esperienza che mescola la poesia all’amore assoluto. A meno che i pezzi assemblati non le rivelino i contorni della dominazione e della bugia, forse perfino quelli della perversione. Clotilde ha paura di quello che le salterà agli occhi.

Clotilde Mélisse è scrittrice e ha l’abitudine di trasformare in libri gli episodi e i cicli esistenziali della sua vita. Va per i cinquant’anni: tenendo conto della sua igiene di vita, ha sicuramente meno di due decenni da vivere prima di finire in un’urna. Quindi per lei è inconcepibile lasciare a metà il dossier in corso, lasciare in sospeso questa storia, forse (o per niente) una storia d’amore. Ha anche altre urgenze, presto farà buio e il tempo le manca già.

Clotilde non vuole morire prima di aver visto donne e ragazze alzarsi a una a una tenendosi per mano. Carmagnola sororale che smantella un sistema che colonizza corpo e pensiero; che ribalta ridendo i valori della fallocrazia; che distrugge in un coro di collera i bastioni del virilismo sovrano. Insieme devono ballare al suono dei cannoni: non si possono uccidere i costumi, solo farli evolvere. La distruzione delle gerarchie non si fa con l’ascia, e la tranciatura della giugulare o del pene dei maschi alfa sporcherebbe il tappeto facendone dei martiri. Non servono armi, ma strumenti.

Allora Clotilde cerca di rendersi utile, scrive mucchi di testi per condividere esperienze e spunti di riflessione, a volte li legge in pubblico. Chiama “la Violetta” questa rivoluzione che tuona dai tempi di #MeToo, perché è il colore del femminismo, l’eredità delle suffragette. Per Clotilde non si tratta solo della quarta ondata di femminismo, è l’ultimo tsunami, l’ultima sommossa. Peccato che arrivi in concomitanza con la fine del mondo. Il giorno sta tramontando e il conto alla rovescia sta per scadere. La Violetta potrebbe sottrarsi alla notte, sopravvivere ai grandi bracieri, deporre uova di fenice? Clotilde se lo chiede dal sedile del Thalys.

Il treno arriva a una fermata, alcune persone scendono. Clotilde si perde tra sé e sé, le sue sinapsi sono dei cactus. Il suo sguardo sparisce nel riflesso del vetro perché quando pensa alla Violetta, Clotilde si riempie di vaghezza. Ha le vertigini dall’alto del suo quasi mezzo secolo e si chiede sempre più se ciò che lei è e rappresenta non appartenga al mondo antico, se la sua parola sia diventata obsoleta, appartenente a una giovinezza invalidata. È cisgender, bianca, alla fin fine piuttosto etero, e ha sempre investito con passione nella sua femminilità. Nello sguardo dei non-binari, è meglio lei di un vecchio boomer? Questa domanda la tartassa di continuo.

Sa di essere formattata sulla dicotomia uomo/donna, mascolina/femminile, transgender FtM/MtF. Ha assimilato il terzo sesso da quando ascolta Indochine, l’estetica queer la conquista, sinceramente, perché Clotilde è una drama queen. Sulla carta coglie quello che sentono i fluidi, ma fa molta fatica a vedere qualcosa oltre ad un gesto politico nell’identità di genere fluttuante, mutevole, di volta in volta o maschile o femminile, così come nelle identità non-binarie. Clotilde è impressionata da queste identità, così astute da contrastare ruoli e regole stabiliti, da far soffocare i filoni patriarcali-conservatori.

È nata nel 1973, la sua generazione ha fallito nel modo di interpretare la realtà. Il nemico dell’epoca era il capitalismo. Obiettivo: cambiare il mondo votando il socialismo e facendo manifestazioni, il tutto tra due scambi Erasmus. Qualsiasi sia il settore, intellettuale o artistico, nessuna persona nata in questo periodo si è veramente imposta: utopisti ma poco creativi, saltellano dietro ai colleghi della generazione precedente mentre quelli più piccoli li spingono fuori pista. Il potere li schifava, sognavano la collettività. Il che ha permesso ai loro padri di conservare il potere. I sessantottini si tengono stretto ancora oggi il loro posto, sia esso concreto o simbolico. I figli delle prime crisi petrolifere non potevano uccidere i loro padri, così permissivi, comprensivi, aperti, gentili. Ma lasciando il potere unicamente nelle mani dei padri questa generazione si condannava. Ormai erano già giudicati dalle generazioni successive. Alla fin fine menomale che arriva, questa fine del mondo. A volte ci sono sguardi che nessuno può sostenere.

Questa primavera è glaciale, nel vagone il fiato si trasforma in condensa, la punta delle dita di Clotilde si ricopre di brina, sfrega le unghie contro il maglione. È giunto il momento di iniziare il lavoro. In tutte le relazioni che possono essere definite con l’aggettivo amoroso vengono riprodotti degli elementi, in eco, dell’infanzia; tutti questi elementi scivolano e si inseriscono tra le fessure lasciate dalle scene fondatrici della nostra vita. A seconda di dove siamo e di chi abbiamo di fronte cerchiamo di riempire queste fessure, cerchiamo di ripararle; oppure sappiamo solo scavarci dentro ulteriormente e trasformarle in crepe più profonde. Per risolvere l’enigma Clotilde deve a sé stessa di indagare in queste fessure.

È da sola nei posti 96-97. Così può stare a suo agio. L’autops(icolog)ia, si pratica in silenzio, facendo finta di niente, ma si può fare ovunque. Eccola tirar fuori dalla borsa in pelle argentata la sua trousse dei trucchi per cercare il pettine. Liscia con colpi secchi la testa, il ritmo cardiaco le aumenta, fa cadere sul palmo della mano sinistra tre gocce di gel idroalcolico e si sfrega vigorosamente le mani. Poi scosta i capelli e pesca in fondo alla testa i suoi ricordi uno a uno, li spalma sul ripiano del treno con mille precauzioni, prima di osservarli.

La forma e la texture dei ricordi varia, ma tutti sono minuscoli, raggiungono appena un centimetro in lunghezza, larghezza, spessore e diametro. Alcuni sono duri, rotondi e compatti; altri sono spessi e gelatinosi; altri ancora piatti e metallici o perfino così consumati che ci si può quasi vedere attraverso. Alcuni sono disposti a grappolo, uniti da qualche filamento; non come chicchi d’uva ma come bolle di sangue, di ambra liquida, di fumo blu. Al contatto con la plastica alcuni trasudano, altri si ripiegano; la maggior parte resta inerte. Sono così lisci come gli oggetti per metà organici che scintillano sotto uno strato di cristallo levigato da perle d’acqua o d’olio. La luce ne viene attratta: attorno ad ogni ricordo c’è un alone arcobaleno.

Clotilde passa lentamente l’indice intorpidito sul bordo di ognuno di essi, li prende tra le dita; le gocce si fissano e i ricordi si mettono dolcemente a palpitare. Li fa ruotare su sé stessi, li scruta, cerca di vedere quelli che possono o potrebbero incastrarsi tra loro. Li dispone su alcune linee, in ordine di dimensione e colore. Sceglie il primo elemento, un pezzo di passato per lei costitutivo.

  • Titolo Povera pazza
  • Autore Chloé Delaume
  • Collana  Narrativa
  • Isbn 978-2-931144-45-9
  • Traduzione di Sofia Tincani
  • Esce aprile 2025
  • Costa 18.00

 

 

Chloé Delaume, nata a Versailles il 10 marzo 1973, è una scrittrice francese. La sua opera letteraria, per lo più autobiografica, si concentra sulla letteratura sperimentale, sul femminismo e sull’autofiction. Per la Mincione Edizioni ha pubblicato "Povera pazza".

Sofia Tincani, ha studiato lingue e letterature all’Università di Bologna e all’Université Paris Nanterre. Ha pubblicato articoli su diverse riviste accademiche come RIEF - Revue italienne d’études françaises. Per Crocetti Editore ha tradotto Essere qui è uno splendore di Marie Darrieussecq. Per la Mincione Edizioni ha tradotto "Povera pazza".

 

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